http://www.internazionale.it/weekend/2015/03/28/franco-lorenzoni-maestro-scuola
Da consultare e leggere con molta attenzione, esistono persone che hanno reso possibile ciò che appare impossibile solo perché con grande semplicità ci hanno creduto.
Le parole di Giuseppe Bagni ci convincono molto, proviamo a leggerle insieme annotando i punti salienti, l'idea centrale delle sequenze diremmo ai ragazzi, sfido ad indicarle in rosso, ci proviamo? Parto io, consapevole che qualcuno mi segua, anche solo nella lettura
Sul disegno di scuola e chi la
abita, di Giuseppe Bagni
C'è una strada facile per scrivere un pezzo ben
argomentato sul Disegno di Legge del governo Renzi. Si enumerano le cose che
vanno bene e quelle che vanno male. Chi è favorevole, parte da quelle negative
e finisce amplificando le positive; chi è contrario, fa il percorso opposto per
liberarsi rapidamente del positivo e concentrarsi sul negativo.
È uno schema troppo semplice che oltretutto favorisce la polarizzazione del
dibattito su posizioni senza sfumature e zone di sovrapposizione, quando già la
partecipazione alla politica si sta riducendo all'opzione del "mi
piace", che si clicca prima e a prescindere dal commento (i
"perché" dei mi piace interessano meno).
Sarebbe un approccio che rischia paradossalmente di lasciare sullo sfondo
la scuola e i suoi reali bisogni: un lusso che non dobbiamo permetterci.
Che cosa sappiamo
Conosciamo i problemi della scuola? Sì: dagli anni Settanta abbiamo rilevazioni
internazionali che ci danno certezza del fatto che il rendimento scolastico
degli studenti è legato al contesto territoriale. Che il destino nella scuola
"superiore" è legato non solo al merito dei singoli ma anche
all'indirizzo scelto, e che questa scelta è ancora fortemente connotata socialmente.
Sappiamo che le differenze di "bravura" tra gli studenti sono basse
all'interno della stessa scuola e molto alte fra le varie scuole, come dire che
il "merito" nella scuola italiana non dipende dal singolo ma dalla
sede scolastica dove lui finisce, il cui livello socio-economico (il suo
habitat) ha più peso sugli esiti che non quello della famiglia.
Ogni singola scuola condiziona gli studi ed il cammino, dimmi dove vai, ti dirò chi sei
Scelte che aggravano i problemi
Da qui, da questa realtà si doveva partire: è stato fatto? Purtroppo no. Ci
sono anzi scelte che peggioreranno la situazione. Il 5 per mille che verrà
destinato alle scuole sarà molto diverso in valore assoluto in Lombardia, per
esempio, rispetto a quello della Calabria o della Sicilia, e visto che andrà a
singole scuole, aumenterà le differenze anche tra le scuole della stessa regione.
Lo stesso effetto sulle diseguaglianze sarà prodotto dallo school bonus.
Anche se il governo interverrà in senso perequativo resterà il messaggio
per l'opinione pubblica di scuole-zavorra, che sono un costo per lo Stato,
accanto ad altre di qualità, che si autofinanziano, senza spazio per una minima
riflessione sui diversi contesti in cui agiscono e sulle funzioni che svolgono.
Se si vuole intervenire sulla dispersione in maniera efficace bisogna
destinare i docenti e i dirigenti migliori nelle scuole più difficili, ma
l'albo regionale con chiamata diretta del preside va in direzione diversa:
perché un docente richiesto da scuole comode, frequentate da ragazze e ragazzi
ben educati dovrebbe scegliere quelle difficili e disagiate, dove ci si misura
tutti i giorni con la fatica dell'insegnare a ragazze e ragazzi che non
vogliono imparare in quella scuola che invece per noi ha funzionato?
In chimica si insegna che "il simile scioglie il simile".
La qualità della scuola dipende soprattutto dalla qualità degli insegnanti
"normali", con un curricolo normale e nessun segno particolare per
essere scelti. Quello che invece è straordinario è il compito a cui sono
chiamati, e allora, dall'enfasi sui "migliori" dovremmo passare a
quella sul "miglioramento" che coinvolge tutta la scuola come
comunità professionale.
Parole sante, non servono migliori nelle scuole elitarie, servono bravi docenti impegnati là dove ci sono emergenze, e la dispersione è un'emergenza grave
Metafore di senso
comune
Si è preferito proporre un'idea di scuola che fosse comprensibile per tutti,
operazione tutto sommato facile perché la nostra scuola si trova nella
condizione paradossale di avere contorni incerti, che la espongono a regolari
invasioni di slogan e metafore provenienti dall'esterno, e allo stesso tempo
non permeabili: tutto ciò che fa la scuola è estremamente
"scolastico". Il contrario di ciò che servirebbe, cioè confini più precisi
ma molto permeabili con l’esterno, per farsi conoscere a partire dalla sua
complessità.
Il Disegno di Legge propone invece una nuova ampia gamma di metafore che hanno
il senso di semplificare quella complessità ad uso e consumo del senso comune.
Operazione che può essere vincente nella comunicazione diretta con l'opinione
pubblica ma che si paga in termini di credibilità all'interno del mondo della
scuola.
Ecco allora che al preside manager segue il preside sindaco e poi il preside
allenatore che sceglie la "squadra" da mettere in campo. Ma contro
chi gioca la sua partita? Chi è che perde? Forse le altre scuole che non hanno
"campioni" di pari livello? Passeremo l’estate a proporre ingaggi
agli insegnanti migliori?
Questa nuova trovata del preside manager rattrista molto, cercasi presidi di livello preparati per fare squadra
Il vero
avversario
Il problema è che non è l'altra scuola l'avversario. L’avversario è, o dovrebbe
essere, principalmente l'abbandono scolastico, che se fa squadra non lo fa
certo scendendo in campo aperto, sotto i riflettori, facendo indossare a tutti
la stessa maglietta. Anzi, cerca l'invisibilità degli ultimi banchi, delle
assenze prolungate, dei silenzi ostinati.
Contro questo avversario non servono "campioni", ma un corpo docente
che sappia dare di sé un'immagine coerente e positiva. Insegnanti disposti a
mescolare la propria biografia (ben più del curricolo) con quella dei loro
alunni per coinvolgerli e spesso trascinarli contro la loro stessa
volontà.
Manca un progetto di
scuola
Ma ci vuole un progetto di scuola, non la scuola dei mille progetti; ci
vogliono curricoli che sappiano misurarsi con i nuovi modi di apprendere e di
vivere dei giovani. Ci vogliono sperimentazione e ricerca che sorreggano e
diano senso all'autovalutazione; ci vuole una scuola che sappia prendere il
massimo dagli insegnanti migliori e nello stesso tempo far crescere tutti ponendosi
al centro di un sistema nazionale di formazione degli insegnanti. Una
formazione che, quando si entra a scuola, non scompaia, ma cambi
aspetto per divenire una parte costitutiva della nostra professione, al pari
del progettare gli interventi educativi, del fare lezione, valutare gli esiti,
confrontarsi collettivamente.
Nel Disegno di Legge, di un tale progetto si perdono le tracce. Nonostante vi
sia una significativa inversione di tendenza con l'investimento di risorse
importanti nella scuola, l'assunzione di una fetta consistente del precariato e
dichiarazioni d'intenti condivisibili sul ruolo dell'autonomia, il quadro
complessivo sta dentro un paradigma diverso, in cui domina la dimensione
individuale. Questo aspetto viene messo in mostra con prepotenza nella figura
plenipotenziaria del nuovo dirigente, ma anche più sottilmente nell'idea del
premio individuale al "buon docente" e in quella del voucher di
500€ per l'aggiornamento personale, che ciascun insegnante potrà spendere come
vuole nel libero mercato della cultura e dell'aggiornamento.
La cultura della scelta individuale
Insegnare è sicuramente una professione di cultura ma non basta la cultura
per insegnare, ci vogliono soprattutto il desiderio e la capacità di renderla
contagiosa. Il sapere di un maestro serve solo per darlo, diceva un alunno di
don Milani (citato quanto mai a sproposito di questi tempi). Se si avesse il
coraggio di sfidare l'impopolarità destinando quelle risorse alle singole
scuole per finanziarne ricerca, sperimentazione e valutazione degli esiti,
cambieremmo la scuola, e ogni singolo insegnante, assai più radicalmente che
non pagandogli il biglietto del cinema.
Purtroppo in un tale paradigma anche gli aspetti positivi presenti nel
disegno rischiano di restare lettera morta perché soltanto una scuola buona
potrebbe farli diventare realtà, ma quella che c'è già avrà vita assai dura.
Essa ha uno dei punti di forza nella diffusione delle responsabilità e
nella collaborazione tra gli ottimi dirigenti e insegnanti che vi lavorano (ma
aggiungo gli studenti, i genitori e tutto il personale della scuola), che sarà
messa in serio pericolo dalla spinta al conflitto permanente prodotta dall'aver
scelto la strada di dare libero spazio alle scelte personali del dirigente.
Ma che ha a che vedere questa cultura della decisione individuale con
quella della scuola? Perché dovrebbe essere funzionale a risolvere i problemi
reali della scuola? È forse questa paventata lentezza che ha bloccato
l'autonomia o piuttosto sono stati i tagli permanenti degli ultimi decenni e la
mancanza di un Progetto nazionale che indicasse la direzione nella quale le
scuole, in autonomia, dovevano muoversi?
Il fascino del “capo”
Siamo evidentemente di fronte alla penetrazione entro i confini della
scuola del fascino del decidere rapido del "capo" rispetto al
faticoso deliberare partecipato. Paradossale, se si pensa che la scuola è forse
l'unica istituzione costituzionale che sia riuscita a costruire, attraverso una
storia fatta di faticose deliberazioni, una comunità di professionisti
(dirigenti e insegnanti) che cooperano nel realizzare un progetto educativo
pubblico. Non c'era altra strada per farcela.
Che senso ha
invece la prospettiva di scegliere insegnanti singoli, in funzione del piano
dell’offerta formativa dell’istituto? Come non rendersi conto che, eccetto
alcuni casi (probabilmente la minoranza), il dirigente dovrà scegliere tra
curricoli analoghi, fatti degli stessi titoli di studio (sempre che non si
voglia mettere in discussione il loro valore legale), lasciando che sia un
colloquio a giustificare la decisione? Oppure si sceglieranno dimensioni
aggiuntive, non certo decisive per affrontare i problemi reali
dell’apprendimento.
Inutile dare
trasparenza a decisioni che saranno intrinsecamente aleatorie. Anche ammettendo
che non siano impugnabili, non per questo saranno meno arbitrarie.
La vera responsabilità
del dirigente
La competenza e la conseguente responsabilità dell’insegnamento e
dell'apprendimento deve essere assunta dalla professionalità insegnante.
É qui il nodo: la responsabilità del dirigente scolastico deve coesistere
con altre responsabilità; sarebbe un disastro se gli insegnanti fossero
ricacciati nel lavoro individuale, nelle aule e nell’anonimato assembleare del
collegio.
I poteri del dirigente scolastico non ne escono né umiliati né diminuiti: il
dirigente dirige, ma non dei “sottomessi”. Il rapporto tra dirigente e
insegnante è tra due competenze e quindi tra due diverse condivisioni di
responsabilità, nessuna di seconda mano all'altra.
Ci sono nelle scuole un'infinità di ottimi dirigenti, che spesso sono stati
anche ottimi insegnanti, per cui c'è il forte rischio che nel passaggio di
ruolo facciano diventare il loro progetto didattico quello della scuola:
sarebbe un disastro. Il ruolo di dirigente non può comprendere l'appropriazione
delle competenze riferite alla funzione dell’insegnare, bensì delle altre
competenze nel governo dell’intero sistema dell’unità scolastica, e soprattutto
nella valorizzazione di quelle degli insegnanti nel costruire e nel governare
il progetto/processo di insegnamento-apprendimento.
Un processo
decisionale cooperativo
È questa la direzione a cui guardano i paesi OCSE più evoluti dove la
richiesta di accountability, non solo nella scuola
ma in tutta la pubblica amministrazione, viene connessa con quella di una governance inclusiva e partecipativa, che consiste nel rendere accessibile e
cooperativo il processo decisionale.
La scuola ha fondato le sue conquiste più importanti su un clima di
cooperazione reso possibile proprio dalla impersonalità delle norme che hanno
garantito percorsi pubblici per abilitazioni concorsi e assunzioni. Che dire
della premiabilità del 5% dei docenti da parte del dirigente, quando la scuola
ha già il fondo incentivante che dovrebbe servire proprio a riconoscere il
merito di un lavoro ben fatto? Non basterebbe metterci i soldi? Se invece
il desiderio fosse quello di stabilire una progressione di carriera per i
docenti, allora avrebbe senso garantire la "portabilità" del livello
acquisito, svincolandolo dalla scuola di appartenenza (e quindi dal suo
dirigente), per affidarlo ad una valutazione nazionale.
La scuola pubblica,
laboratorio di inclusione
Ma tra le conquiste della scuola c'è anche quanto ha fatto e continua a fare a
livello di educazione interculturale, di integrazione degli alunni stranieri e
dei diversamente abili. Non mancano certo le difficoltà, ma tutti dovrebbero
essere concordi nel sostenere che questa è la direzione giusta perché il
livello di conoscenza reciproca e coesione che si costruisce nel tempo della
scuola non ha pari in nessun altro luogo e momento della vita.
Eppure si è deciso di favorire chi sceglie di mandare i propri figli in scuole
private. Fra esse non mancano realtà importanti che giustificano appieno la tutela
costituzionale della loro esistenza, ma è sufficiente un banalissimo confronto
tra il livello di pluralismo culturale presente fra gli iscritti delle scuole
private con quello delle scuole pubbliche e sulla presenza di stranieri e
diversamente abili, per capire che è difficile far passare quei contesti come
laboratori dell'inclusione. Allora, come si può ammettere che i genitori che
aderiscono al progetto pubblico di scuola inclusiva paghino contributi
volontari (obbligatori) i quali rappresentano frequentemente più del 50% delle
entrate della scuola, e poi si detassino i genitori che scelgono le scuole
private, certamente "scuole libere" ma anche scuole che liberano dal contatto con la diversità?
Il rischio di chiusura
e la vera risorsa
Ma ciò che più preoccupa è l'effetto che questa incoerenza politica produce su
quegli insegnanti che da sempre hanno rappresentato la componente riflessiva
delle scuole, capace di guidare i cambiamenti amplificandone gli aspetti
positivi e minimizzando i danni delle le scelte sbagliate.
Oggi si percepisce una spaccatura nel loro agire, come l'apertura di un solco
profondo che interrompe ogni scambio tra la scuola vera, che essi vivono
quotidianamente, e quell'idea di scuola più generale che si sente
"desiderabile" per tutti.
Se gli insegnanti più appassionati rinunciano ad alzare lo sguardo per guardare
oltre la cattedra e i banchi dei propri alunni perdiamo la risorsa più preziosa
della scuola. L'aula allora diventa il confine di senso del proprio lavoro,
l'unico luogo dove ci si sente capaci di incidere, in cui la scuola
"pensabile" può ancora diventare "possibile". Oltre quelle
pareti cresce un disinteresse per le scelte più generali che spinge al massimo
a farsi un'opinione, ma accompagnata dalla rinuncia a farla contare.
Stiamo spingendo chi ama davvero la scuola ad amare sempre più solo la propria.
La scelta di chiudere la porta dell'aula per restare all'interno del
rassicurante microcosmo che si è costruito viene vissuta come l'unica via di
fuga possibile dalle costanti delusioni, ma sempre di una fuga si tratta, oltre
che di una sconfitta per tutta la scuola.
Se non si ferma questa deriva anche gli insegnanti che sentono la scuola come
una seconda pelle cominceranno a contare gli anni che mancano alla pensione.
Invece il loro entusiasmo e la capacità di lavorare nel pensando in grande è la
principale risorsa per la buona scuola.
Che c'è già, e chiede solo di essere accompagnata.
UN preside capoccia o ducetto, insegnanti impegnati per essere notati come sorvegliati speciali...intanto cadono i tetti, mancano soldi si salvi chi può, ma restano esperienze virtuose, per quanto ancora?